Come aiutare il PBL a trovare le parole per dirsi?

Gli inizi della relazione terapeutica con le persone che portano questa modalità esperienziale sono spesso «difficili, contraddittori, le richieste sono ambivalenti». Al nostro primo incontro L. mi dice di essere al suo secondo tentativo terapeutico. Sente di essere stata aiutata dal precedente percorso nel ridurre alcuni comportamenti impulsivi e autolesivi, ma continua a stare male e non sa perché. Al contempo sottolinea: «Ho provato con un terapeuta uomo perché non ho stima delle donne, in generale penso che siano subdole. Tanto mi sa che nessuno può fare qualcosa per me, io sono così, sono sempre stata così. Mi sono anche un po’ stufata di provare a cambiare». «Voglio il tuo aiuto e allo stesso tempo lo rifiuto» è spesso il messaggio ‘in superficie’ con cui il terapeuta si confronta, espressione di uno sfondo relazionale contrassegnato, come dicevamo, da due grandi paure: paura di essere abbandonati e paura di essere fagocitati. La diffidenza, il timore e la fatica con cui questi pazienti si prendono qualcosa dal terapeuta sono segno della paura di essere trascinati nella fusione. Eppure già in queste poche parole di L. emerge un’intenzionalità nuova: avvicinarsi al femminile, scegliere ciò che impaurisce di più, perché da qualche parte, anche se in modo non consapevole, percepisce questo come un cambiamento importante. Pur essendone spaventata. Tutta la relazione terapeutica si colorerà, anche se in modi e con intensità diverse lungo il percorso, di questa forte ambivalenza.

Andreana Amato, “«…Come se fossi nata ‘dispara’…» Il modello di Traduzione Gestaltica del Linguaggio Borderline (GTBL). Attestazioni cliniche”, in G. Salonia (ed.), La luna è fatta di formaggio. Terapeuti gestaltisti traducono il linguaggio borderline, Ed. Il pozzo di Giacobbe, pagg. 118-119





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