Ma se da un lato possiamo ormai
riconsegnare il soffrire al suo spessore relazionale, riportandolo alla
situazione incompiuta, alla ferita e all’apertura dell’incontro mancato o
incompiuto con l’altro (così da disvelarne la profonda intenzionalità di contatto),
appare urgente, per converso, concentrarsi in maniera adeguata sul processo
stesso della scrittura finzionale in quanto attivazione del carattere
“intrapersonale” e dove il sé funziona dunque quale elastica membrana di
contatto fra l’io, soggetto della parola, titolare del suo lessico, del suo
ritmo, del suo tono, e il tu interno all’organismo, che tale pronunzia rimodula
facendosene ascoltatore e modificatore, in base all'”aspettativa instaurata dai
sentimenti”. Che poi è sintagma equivalente, in una coerente esegesi di
Goodman, al tu in quanto “altro” dall’io, quel “tu” che si impara a dare a sé
stessi in un processo di crescita sana e che si va costruendo nel campo
organismo/ambiente come frutto
dell’assimilazione delle molteplici maschere dell’esperienza vissuta. E’ su questo “tu” ad agire e modellare
dall’interno la parola raccontata sulla pagina, in quanto istanza che definisce
insieme con l’io lo spazio traitario e intrapersonale del sé.
Antonio Sichera, Per un’ermeneutica della narrazione, in Testo. Studi di teoria e storia della
letteratura e della critica, 63 Nuova Serie- Anno XXXIII, Gennaio-Giugno
2012, Fabrizio Serra Editore, pag. 30
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