«Come
si può ch’io regga a tanta notte?»; «E t’amo, t’amo». Nessuno può chiedere ad
un uomo di reggere ad un dolore più forte di lui, ma nessuno può impedirgli di
amare nell’assenza e nella morte, e di sentirsi spiantato, sradicato dalla vita
così come spiantato è stato Antonietto, come spiantato è ogni amato sottratto
all’abbraccio dell’amante. È l’amore forte come la morte, che non può finire,
che attraversa ogni momento. Nello schianto – che rimanda allo «schiantare»
dantesco, e cioè al «Perché mi spiante?» gridato da Pier delle Vigne il cui
corpo tramutato in pianta sanguina nel XIII dell’Inferno – c’è dunque il
senso della lacerazione del corpo, dell’essere divelti, del dolore fortissimo e
improvviso che schianta, che fa scoppiare il cuore. Così accade nell’esperienza
estrema dell’algos, nella fenomenologia corporea ed esistenziale del
soffrire ultimo che la poesia ci restituisce con una precisione chirurgica, con
un calore bianco, con un battito infallibile. La finezza di questa analisi
dell’anima è intimamente gestaltica. Quel che Il dolore ci ha detto,
infatti, fra le tante cose che avrebbe potuto dirci, nasce nel fondo implicito
dell’inchiesta, dalle domande proprie di una sensibilità continua al soffrire
dell’altro, da uno sguardo attento alla superficie e all’ovvietà, da uno
scandaglio rispettoso ma non ipocrita o mistificante di quanto ci accompagna e
ci attraversa nei momenti più duri e dolorosi, così come nei disagi costanti
della vita. Eppure la nostra quête non può finire qui. In ascolto del Dolore,
ci è dato di scoprire infatti come il poeta che dice il proprio soffrire, che
mette parole al soffrire di tutti, può farsi terapeuta di questo abbattimento
mortale, indicandoci qualche via di guarigione e di speranza.
Antonio
Sichera,Ungaretti, IL DOLORE , in GTK 6, Rivista di Psicoterapia,
Maggio 2016, pag. 69
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