A questo punto diventa chiaro come l’addiction non si configura come
patologia di una relazione simmetrica (come se esistesse tra il soggetto e la
sostanza un rapporto di coppia), ma come disturbo di una relazione asimmetrica,
nella quale il paziente non ha appreso a “dare del tu a se stesso”. Per questo,
come si sa, le crisi di astinenza e il craving
tipici dell’addiction non vanno letti
come angoscia di separazione, quanto piuttosto come angoscia di abbandono. E’
la “sostanza” – da cui si dipende – che si prende cura del paziente, lo
sostiene, lo placa, gli dà euforia ma, in quanto un Esso, è rigido, immutabile,
schiavizzante. La prospettiva terapeutica prevede diversificazioni di
interventi a seconda che il dolore riguardi la separazione (relazione
simmetrica) o l’abbandono (relazione asimmetrica): il dolore di separazione con
il tempo viene assimilato e diventa maturazione del soggetto, l’angoscia di
abbandono con il tempo anziché essere assimilata si acuirà e cronicizzerà.
Nell’addiction la terapia, quindi,
dovrà puntare a far sì che il paziente trovi le parti di sé che cerca in modo
inconsapevole e disperato nella sostanza: obiettivo non sarà tanto farlo
separare dalla sostanza, quanto piuttosto aiutarlo a trovare la propria
integrità e pienezza nella solitudine (quel “dare del tu a se stesso”) che si
apre alla vera relazione. Il vuoto che tortura il paziente non è connesso con
la presenza/mancanza della sostanza, quanto piuttosto con la mancanza di sé a
se stesso. L’addiction, dunque, come
ostinato, rigido schema di relazione asimmetrica disfunzionale, in quanto non
conduce all’Aida-intrapersonale.
Giovanni
Salonia, Presentazione, in La relazione assoluta. Psicoterapia della
Gestalt e dipendenze patologiche, a cura di Giancarlo Pintus e Maria
Vittoria Crolle Santi, ed. Aracne, pagg. 22-23
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